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25 aprile: orgogliosi di ricordare

Come accade da qualche anno, nel corso della celebrazione cittadina della festa della Liberazione la sede di via don Minzoni è stata una delle tappe. Qui infatti è stata deposta una corona commemorativa di Jacopo Dentici 2016-04-25 10.48.14(dopo quella deposta al Sacrario Caduti Partigiani del Cimitero Maggiore e quella al Rondò Carducci in memoria di Franco Quarleri).

Il corteo si è poi formato alla stazione (Lapide Ferrovieri Caduti per la Libertà)  e si è soffermato in via Ricotti al Monumento ai Caduti, accompagnato dalla Banda musicale Città di Voghera e dal Coro degli alpini, per raggiungere infine Piazza Duomo. In Sala Consiliare il saluto del Commissario prefettizio dott. Sergio Pomponio e l’orazione del prof. Davide Petrini, giurista.

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Ecco il testo letto da alcuni studenti della sezione classica del Liceo ‘Galilei’.

<<Viene l’alba. Il treno si ferma, le porte si aprono. Scendere. La sferzata di aria gelida ci rianima. Una infinita distesa di neve, risalente a tratti, a tratti ondeggiante e a ridosso di un’altura il fabbricato modesto di una piccola stazione, sul fronte del quale spicca una parola a caratteri gotici: Mauthausen.

Ci avviamo incolonnati. Baffuti territoriali austriaci, fucile spianato, ci affiancano. Davanti e dietro, due SS. Si va in salita. Siamo deboli e il cammino è faticoso.

Attraversiamo una cittadina graziosa. Radi passanti scantonano senza nemmeno guardarci. Paura. E poi su ancora.

Ai lati della strada garitte di guardie, e poi gruppetti di uomini che eseguono lavori di sterro. Ci guardano appena, continuando il lavoro.

[…]

Più avanti, in uno spiazzo in basso, alcune baracche, quasi subito occultate a una svolta. Hanno un aspetto sinistro e non ci rendiamo conto perché. Sapremo poi che è il famigerato “campo russo”, l’ospedale dove nessuno guarisce. Poi ci appare una enorme voragine, una specie di cava a imbuto nuda e rossiccia. Brulicano nel fondo degli uomini dai movimenti lentissimi, i quali caricano grosse pietre su vagoncini décauville. Da un lato una lunga gradinata discende dal costone della collina fino al fondo. Sui gradini è disseminata una teoria di figure umane che appaiono immobili tanto il loro moto è lento e faticoso. Ognuno porta sulle spalle un grosso macigno. Dalla strada non si scorgono i loro volti. La visione è allucinante.

In basso, nella vallata coperta dalla neve, il grandioso nastro del Danubio, solenne e indifferente, come un dio, serpeggia in un’ampia ansa e si perde all’orizzonte.

Su, su ancora. E a un tratto si erge davanti ai nostri occhi una costruzione massiccia, schiacciata, due torri ai lati e un portale nel mezzo. Sembra una fortezza. Dalle due torrette appaiono minacciose le canne di mitragliatrici. Ai fianchi inizia e si estende un muro di cinta, alto più di tre metri, sopra il quale sono tesi cinque ordini di fili spinati. Oltre il muro si profilano torrette in legno in ognuna delle quali spiccano, brunastre, figure di armati.

Entriamo in un ampio e lunghissimo piazzale deserto. Costruzioni in pietra a destra, costruzioni in legno a sinistra. Tutto è pulito e ordinato. Svoltiamo subito a destra dell’ingresso e veniamo allineati dietro i fabbricati, quasi a ridosso del muro di cinta.

L’attesa è lunga, l’aria rigida. Battiamo i denti e pestiamo i piedi.>>

Sono lo stesso silenzioso paesaggio, le stesse condizioni, la stessa fermata che hanno accolto, ormai più di settant’anni fa, non solo Piero Caleffi, autore del passo di cui vi abbiamo proposto la lettura, ma anche Jacopo Dentici, alunno del Liceo “Grattoni” e tanti, troppi altri, giovani e meno giovani che come lui hanno abbracciato la causa della libertà, sottraendosi ai vincoli imposti da un regime che riduceva al silenzio i suoi oppositori, costringeva al lavoro nei campi di internamento e cercava di cancellarne il ricordo.

Noi siamo qui a dimostrare che quel regime ha fallito, a riproporre quello stesso ricordo che è  diventato elemento fondativo della memoria collettiva della nostra comunità   scolastica e cittadina. Con lo scopo di mantenere viva la nostra testimonianza, noi alunni delle classi seconde e terze della sezione classica abbiamo quindi deposto, il 12 aprile scorso, a nome della sua scuola, una targa commemorativa in onore di Jacopo Dentici al ‘Muro dei Caduti Italiani’ antistante l’ingresso al campo di Mauthausen.

 Le scarne biografie dicono di lui che era uno studente di intelligenza precoce, scriveva poesie, curava traduzioni e che, dopo la maturità classica, si iscrisse alla facoltà di Fisica dell’Università di Milano a soli 17 anni. Jacopo appartenente ad una famiglia antifascista (la madre Marcella Ferrero, la sorella Ornella e il futuro cognato Franco Andreani erano impegnati nel movimento clandestino nelle file di ‘Giustizia e Libertà’), dopo l’8 settembre Jacopo era entrato nei Gap del Comando Piazza di Voghera, dedicandosi a varie attività, dalla raccolta di armi alla distribuzione di stampa clandestina, all’aiuto agli ex-prigionieri anglo-americani. Si era poi trasferito a Milano, dove era entrato a far parte della segreteria di Ferruccio Parri, al Comando generale del CVL (Corpo Volontari della Libertà). Dopo l’arresto nel novembre 1944, il 16 gennaio successivo era stato trasferito al campo di Bolzano e da qui deportato a Mauthausen il 1° febbraio 1945. Trasferito a Gusen vi moriva circa un mese dopo, poco più che diciottenne.

Nell’esempio di quelle migliaia di giovani che, pur nati durante il fascismo, seppero compiere una difficile e impegnativa scelta di libertà, possiamo, noi giovani di oggi, trovare le ragioni per continuare ad essere orgogliosi della Resistenza: perché è stata una rivoluzione morale che ha insegnato a disobbedire, a pensare, a scegliere, a impegnarsi mettendo anche a rischio la propria vita; perché ha spianato la strada alla formazione della Repubblica italiana, nata settant’anni fa con il referendum del 2 giugno 1946. La scelta per la Repubblica scaturì infatti direttamente dalle giornate dell’aprile 1945 e il risultato del referendum fu la sanzione istituzionale di un processo dal basso, spontaneo, assolutamente inedito, anche per dimensioni, nella precedente storia dell’Italia unita. Di questa memoria abbiamo bisogno ancora di più oggi perché,  di fronte al riemergere di egoismi e nazionalismi, sembra incrinarsi il nuovo spirito europeo che è scaturito da quelle lontane vicende.

Nel 1945 Jacopo, oggi noi, tutti, siamo chiamati a dare il nostro personale contributo contro ogni forma di limitazione della libertà, che deve essere conquistata e sempre conservata in quanto bene di maggior valore di cui l’umanità dispone, unico valore in grado di evitare il ripetersi degli errori del passato. Di questo erano lucidamente consapevoli i sopravvissuti che ai primi di maggio del 1945 a Mauthausen accolsero i primi soldati americani, dalla faccia sgomenta, che misero piede nel campo.

Ragionando sull’odio che degrada l’uomo e genera la violenza e, in definitiva, i campi di eliminazione, Caleffi e i suoi compagni esprimevano la speranza che i “maledetti campi” avrebbero insegnato qualcosa, con parole che suonano quanto mai attuali e possono ancora farci riflettere.

<<Forse non ci saranno più guerre, se i giovani saranno capaci di formare un nuovo mondo.>>

<<L’uomo può essere buono o cattivo, angelo o bruto, a seconda che sia libero o schiavo, a seconda che conosca o ignori.>>

<<L’uomo è libero quando la fame non lo degrada e non lo esaspera, non gli impedisce di pensare e di volere. L’uomo è libero quando può decidere il proprio destino, serenamente, senza paura; quando non è schiavo dei suoi istinti peggiori, quando i suoi migliori impulsi sono incoraggiati e guidati dalla ragione e dall’amore degli altri uomini e per gli altri uomini.>>

 

(I lettori: Beatrice Bartilucci, Federico Arrigoni, Riccardo Buscaglia, Alberto Guerra, Mattia Negri e Marta Scolè)

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